La domenica di don Franco: “Dio sceglie le cose deboli per confondere i forti; non sceglie il sano ma il malato; fa più festa per la pecorella perduta e ritrovata che non per le novantanove al sicuro”

20 Settembre 2020 - 19:15

20 settembre 2020 – XXV Domenica (T.O.)

ESSERE CHIAMATI E’ GiA’ UNA GRAZIA!

Gruppo biblico ebraico-cristiano השרשים הקדושים

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Prima lettura: I miei pensieri non sono i vostri pensieri (Is 55,6). Seconda lettura: Per me vivere è Cristo (Fil 1,20). Terza lettura: Sei invidioso perché io sono buono? (Mt 20,1).

La domenica “dei lavoratori dell’ultima ora”   Il nocciolo della parabola sta nell’atteggiamento degli operai della prima ora, e di Dio nei confronti degli operai dell’ultima ora (v. 11). Tutti gli altri elementi servono a mettere in rilievo questa verità: nel paradiso c’è posto per tutti, perché Dio chiama tutti gli uomini a tutte le ore. La salvezza è sempre un dono del suo amore (v.15). Guai a comportarsi con Dio come il fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo, o come Giona riguardo agli abitanti di Ninive, o come quelli che accampano diritti perché hanno lasciato tutto! La parabola, insomma, contesta una comunità in cui ci sono dei privilegiati! Gli ebrei sono stati i primi ad essere chiamati, ma non per questo avranno un trattamento di favore (v. 16). Come dire: Dio non fa sconti a nessuno perché li fa a tutti!

Essere chiamati è già una grazia, un premio, un onore!   Questa parabola, artisticamente ben costruita, ha messo sempre in difficoltà gli interpreti. Quel padrone, che dava a tutti lo stesso salario, a chi aveva lavorato tutta la giornata e a chi aveva lavorato solo un’ora, riusciva incomprensibile, anzi, ingiusto. Era un comportamento contrario alle norme di giustizia salariale. E qualcuno alla fine protestò! Infatti qui si tratta di salario, e il problema diventa delicato. A volte incontriamo persone che non vedono nulla di buono negli altri. Dio, invece, va sempre in cerca di tutti, chiama tutti, a ogni ora, vuole accogliere chiunque trova, per tutti ha un lavoro. Dobbiamo comprendere che essere chiamati da Lui è già una grazia, un premio, un onore! Nel suo Regno non ci sono primati di anzianità; non è questione di anni di servizio ma di intensità di amore. Dio non controlla le ore di lavoro. Per Lui è sempre ora! E bisogna evitare di mercanteggiare con Dio, di fargli l’inventario dei nostri meriti, e delle tante ore di lavoro nel suo Regno. E’ una mentalità da mercenari! Non dobbiamo essere invidiosi, cioè “non-vedenti”: il nostro peccato è l’occhio cattivo, il pensiero maligno, la meschinità. Se troviamo ingiusto, per esempio che un ladrone entri in paradiso così a buon mercato, passeremo l’eternità a contare i nostri meriti, ma all’inferno! Finiamola di voler insegnare la giustizia a Dio! Potremmo sentirci dire: “Perché sei invidioso?”. L’invidia è uno dei sentimenti peggiori, e purtroppo è frequente, anche tra persone di Chiesa!

Il mondo di Dio è “totaliter alius”   Quando leggiamo la parabola del Vangelo, avvertiamo subito che il mondo di Dio è veramente diverso dal nostro. Il basso diventa alto, l’ultimo arriva primo, la vecchia verità è errore, chi perde tutto per Dio vince, chi rinuncia ad una famiglia diventa padre di molti figli, chi lavora solo un’ora riceve quanto chi ha sudato tutta una giornata! I suoi valori sono totalmente diversi dai nostri, stupefacenti i suoi gusti, laceranti le sue gioie, beate le sue sofferenze! Pensate: a chi lo segue promette il fallimento; i suoi preferiti sono la gentuccia senza valore; la gente per bene è chiamata “razza di vipere, sepolcro imbiancato”. La legge del suo Regno è il paradosso, l’inedito, l’imprevisto. Dio sceglie le cose deboli per confondere i forti; non sceglie il sano ma il malato; fa più festa per la pecorella perduta e ritrovata che non per le novantanove al sicuro. Il Dio di Gesù Cristo è assolutamente Altro, Diverso, Imprevedibile. In questo Gesù è fedele allo spirito della sua gente: il popolo ebraico, sempre schiavo, sogna di dominare gli altri; il popolo più disprezzato si sente promesso alla gloria; il più castigato da Dio, si sente il popolo più amato da Dio! A questo mondo si accede con una rinascita. Se l’uomo vi entra, inizialmente ha la sensazione di essere uno straniero, le sue abitudini sono contrariate, i suoi conti non tornano più. Ma se resiste all’iniziale scoraggiamento, piano piano la sua anima si rasserena, come se respirasse aria di casa, come se riscoprisse la sua originale identità.

Ogni società ha la sua teologia, che forse non è la vera!   Le vie di Dio non sono le vie dell’uomo; i pensieri di Dio non sono i pensieri dell’uomo (Is 55,9). Dio non è ciò che noi diciamo di Lui. Dio è la diversità, il santo inaccessibile, oltre le nostre teologie; Dio è sempre oltre le pareti delle nostre conclusioni, è al di là, con gli esclusi. Dobbiamo conservarci sempre molto critici con le nostre rappresentazioni di Dio; potremmo correre il rischio di difendere i diritti di Dio, e in realtà lottiamo per difendere le nostre idee e, forse, i nostri interessi. L’uomo di ogni gruppo sociale tende a raffigurarsi Dio secondo le proprie esigenze. Lo aveva già insegnato il buon Senofane di Colofone, già nel VI secolo avanti Cristo: “Se i buoi, i cavalli, i leoni avessero mani, e potessero con le loro mani disegnare e fare anch’essi quello che fanno gli uomini, i cavalli disegnerebbero gli dèi simili a cavalli, i buoi simili ai buoi, e i leoni simili ai leoni”; e in un altro frammento scriveva: “Gli etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri, i traci invece dicono che i loro dèi sono cerulei di occhi e rossi di capelli” (D.K.21 B11). La fede, cioè, assume una morfologia dipendente dalla società. Per sapere quanto la nostra teologia sia giusta, sia “cattolica” di nome e di fatto, ci dobbiamo chiedere se c’è posto per tutti; se non c’è posto per tutti, quella teologia è certamente sbagliata; è proprio nella capacità di accogliere ogni uomo che si dimostra la validità di una rappresentazione teologica. Incarnazione significa che ogni teologia deve diventare antropologia! Se non comprendiamo e non facciamo questa verità, Dio si farà beffe di noi, delle nostre teologie (Mt 21,28).

Dio non è il padrone che paga secondo il rendimento di ciascuno. Nella società in cui viviamo, quasi tutti sono convinti che ognuno ha diritto a essere pagato per quel ch’è giusto, cioè che ogni persona debba guadagnare in rapporto a quanto produce. E perciò v’è gente che si lamenta, a giusta ragione, che è pagata meno (a volte, molto meno) di ciò che dovrebbe guadagnare. Per questo, molto spesso, le relazioni tra i datori di lavoro (i padroni) e i lavoratori risultano molto conflittuali. La ragione dei conflitti è quasi sempre la stessa: chi comanda e ha il denaro vuole che chi lavora, lavori di più, per poter ottenere maggior guadagno; mentre il lavoratore si lamenta perché non lo pagano in rapporto a ciò che produce. Ognuno cerca il proprio interesse. Tutto ciò sembra molto logico.

Non “secondo i nostri meriti”  …   Ma il criterio che a ognuno si paghi secondo i meriti, è valido quando si applica alle relazioni lavorative in una fabbrica. Tale criterio non serve quando si tratta di relazioni basate sull’amore e sull’affetto. Perciò, sarebbe una balordaggine se un padre o una madre si mettessero a calcolare, alla fine della giornata, il “rendimento” e i “benefici” che il figlio ha prodotto loro quel giorno. Se un padre o una madre si relazionassero così con i propri figli, diremmo che questo padre o questa madre hanno perso la testa. E, naturalmente, il cuore! Ebbene, capita che tutti i giorni noi applichiamo questa stessa balordaggine anche a Dio, dicendo che Dio premierà ognuno secondo i suoi meriti. O che bisogna fare tale opera buona o tale sacrificio perché Dio ne tenga conto, o per meritare più gloria in cielo. Perciò v’è gente “pia” che prega, che ricorre ai santuari e che fa non so quali penitenze, poiché è convinta che in tale posto o davanti a tale immagine d’una Vergine o di un Santo si guadagnano più meriti. Davvero, “di Dio diciamo tranquillamente cose che non ci permetteremmo mai di dire di nessuna persona decente” (Antony de Mello).

… ma secondo la sua generosità   È vero che il concilio di Trento, nel capitolo 16 del decreto sulla “Giustificazione”, tratta del carattere meritorio delle nostre buone opere. Ma è importante ricordare che le nostre opere meritorie, per quanto siano nostri propri atti, sono un dono di Dio. S. Agostino è chiaro: non abbiamo nessun diritto davanti a Dio, dal momento che tutto il bene che facciamo è dono della grazia. Dio fece, dei suoi doni, meriti nostri: “qui fecisti tua dona nostra merita”. Noi cristiani dobbiamo liquidare il Dio che paga secondo i “meriti” d’ognuno. A partire da questo criterio, possiamo interpretare la parabola dei lavoratori a giornata. La chiave per intendere la parabola sta nel comprendere che i lavoratori, che hanno protestato per la decisione del proprietario, non lo fecero per egoismo, ma per “il mantenimento del principio di corrispondenza tra il rendimento e la remunerazione”. Ma qui sta il problema! Se qualcosa rimane chiaro nella parabola, è che il proprietario (Dio) non si relaziona con noi secondo il criterio di pagare a ognuno secondo i suoi meriti, ma in accordo con il principio della sua generosità. Infatti così termina la parabola: “Tu sei invidioso perché io sono generoso?” (Mt 20,15). Dal punto di vista dell’etica imprenditoriale e sindacale, sarebbe un’assurdità, la rovina del mercato e della giustizia che noi uomini abbiamo stabilito. Per nostra fortuna, Dio non è un imprenditore e nemmeno è il “divino imprenditore” che gestisce gli affari del cielo, perché nemmeno il cielo è un “affare” soprannaturale.

Contro ogni mentalità sacro-mercantile   Con Dio e con i Santi abbiamo sviluppato, purtroppo, una mentalità sacro-mercantile. Al pari dei numeri di emergenza, abbiamo un lungo elenco di Santi dell’SOS. Oggetti smarriti? S. Antonio. Casi impossibili? S. Rita. Pericoli di viaggio? S. Cristoforo. Malattie di gola? S. Biagio. Difficoltà scolastiche? S. Giuseppe da Copertino. Amori difficili? S. Valentino. E ci potrebbe capitare di chiedere all’ufficio sbagliato ed essere indirizzati altrove! È un male che nella chiesa rimangano ancora pratiche antiche che, senza volerlo, favoriscono tale mentalità, per esempio quando alla gente si predica che, mediante tale pellegrinaggio o tale giubileo, mediante tale medaglia miracolosa o tale pratica devota si “guadagnano” (più tecnicamente: si “lucrano”) tali “meriti” o “indulgenze” parziali o plenarie per arrivare più veloci alla vita eterna. Facciamo un pessimo servizio a Dio quando presentiamo le pratiche religiose come sistemi d’interscambio, di affari e di guadagno, come se il Padre di Gesù, e Padre nostro, stesse a tutte le ore con il libro dei conti in mano, per pagare subito a ognuno quel che s’è guadagnato. Dio merita un rispetto che non ha niente a che fare con questo mercimonio, umano troppo umano! Menschliche, allzumenschliche! Buona vita!