La Domenica di Don Galeone: ” …il peccato dei “giusti” “, costituirsi misura di tutto, giudici e giustizieri degli altri, catoni e censori che distribuiscono premi e castighi

11 Settembre 2022 - 09:27

11 settembre 2022 ✤ XXIV Domenica T.O. (C)

Il perdono fa vivere meglio!

Prima lettura Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo (Es 32, 7). Seconda lettura  Cristo venne a salvare i peccatori (1 Tm 1, 12). Terza lettura  Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito! (Lc 15, 1).

La domenica “della festa del perdono”  Le letture di questa domenica ci rivelano un Dio pieno di misericordia. Potremmo chiamarla la “domenica della misericordia”, a motivo delle tre parabole raccontate da Luca. Gli insegnamenti sono tanti, troppi si direbbe! Il pastore non si sente felice perché ha 99 pecore al sicuro e solo una smarrita. La donna non si rassegna a perdere quella moneta scivolata chissà dove. Il padre non si consola con il figlio maggiore rimasto in casa: un figlio esemplare, mentre il più piccolo, libertino, se n’è andato sbattendo la porta. L’amore di Dio non è attento ai numeri ma alle persone. Per noi potrebbe essere un sollievo (“quel poco di buono finalmente fuori!”), per Dio invece è una sofferenza. L’uomo può stare senza Dio, ma Dio non si rassegna a stare senza l’uomo! Ricordiamolo questo, specialmente quando andiamo a confessarci! Non portiamo a Dio i nostri peccati, ma diamo a Dio la gioia di essere Padre. Non ci chiede che fine hanno fatto i suoi soldi, ma di entrare in casa, di chiamarlo ancora Padre! Il vero ostacolo che Dio trova è la presunzione degli eletti, i quali si costituiscono misura di tutto, giudici e giustizieri degli altri, catoni e censori che distribuiscono premi e castighi. È il peccato dei “giusti”, come lo erano i farisei, come lo era il fratello buono e casalingo della parabola.

Prima lettura (Es 32,7-11.13-14)  Dopo aver assistito a tanti prodigi operati dal Signore durante l’esodo, essi avrebbero dovuto dimenticare il dio toro di Menfis. Invece, appena giunti nel Sinai, mentre Mosè si trovava sul monte a parlare con il Signore, eccoli consegnare ad Aronne i loro gioielli e fondere l’oro raccolto per modellarsi un toro (Es 32,1-6). La prima parte della lettura (vv. 7-10) descrive la reazione sdegnata di Dio a tale infedeltà. Il Signore disse a Mosè: “Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga!” (v. 10). Mosè non fugge, resta unito al suo popolo, preferisce perire con i fratelli piuttosto che salvarsi da solo. La seconda parte della lettura (vv. 11-13) riporta la preghiera di Mosè. Il testo dice così: “Mosè allora supplicò il Signore, e disse…”. In realtà l’espressione originale ebraica andrebbe tradotta così: “Mosè allora cominciò ad accarezzare il volto del Signore, dicendo…”. Mosè si comporta come un bambino che vede il papà corrucciato e si mette a coccolarlo, fino a quando non riesce a strappargli un sorriso. L’immagine di Mosè che accarezza il volto di Dio è una delle più belle della Bibbia!

Vangelo (Lc 15,1-10)  Nel Vangelo di questa domenica vengono proposte le cosiddette parabole della misericordia. Sembra che Gesù le racconti per invitare i discepoli ad andare alla ricerca dei peccatori … in realtà l’obiettivo principale è un altro e lo rivela il versetto introduttivo: “Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro. Allora egli disse loro questa parabola…” (vv. 1-3). Quei loro non sono i discepoli né i peccatori, ma i farisei e gli scribi, dunque, i giusti. Strano, ma vero: i chiamati alla conversione non sono i peccatori, ma i giusti!

I rabbini raccomandavano: “L’uomo non si unisca agli empi, nemmeno per convincerli a seguire la legge di Dio”. Era, dunque, proibito accettare un invito a cena da pubblicani e peccatori. Ma Gesù faceva di peggio: non solo accettava gli inviti di questa gente poco raccomandabile, ma la accoglieva in casa sua (“riceve i peccatori”). Gli scribi e i farisei non comprendevano quel suo comportarsi da amico dei peccatori, che rimanevano tali (w. 1-2). Lo accusavano di organizzare una festa per loro. Ad un certo punto esigono una spiegazione.

I peccatori si trovano tutti attorno a Gesù (sottolineiamo questo tutti che compare nel primo versetto). Stanno facendo festa. I «giusti» invece sono fuori e rischiano di rimanerci se non capiscono la novità che Dio sta rivelando. È in quest’ottica che vanno lette le tre parabole: la pecorella perduta (w. 4-7), la moneta perduta (w. 8-10); il figlio perduto (w.11-32).

  Tutto il capitolo 15 del vangelo di Luca è dedicato a spiegare l’atteggiamento di Dio di fronte ai «perduti». Luca lo spiega raggruppando tre parabole di Gesù: la pecora perduta, la moneta perduta ed il figlio perduto. L’idea centrale di tutto il capitolo è che il Padre di Gesù non guarda ai peccatori come «perversi», ma li vede come «perduti». Qualcosa che si ama tanto, si abbraccia, si festeggia quando lo si ritrova. Il Dio di Gesù non giudica, non rifiuta, non censura e non rinfaccia nulla a nessuno. Il Padre rivelato da Gesù comprende sempre, accoglie e si rallegra, a prescindere dal traviamento di chi si è perso.

  Le religioni conservano e potenziano la loro autorità, facendo pressione sulle coscienze. Per questo utilizzano uno strumento potentissimo: il “peccato”, presentato come perdizione, perversione, traviamento… condannato e castigato da Dio. Per questo manipolano i «sentimenti di colpa», tormentano le coscienze e si servono persino di sentimenti magici, in relazione con ciò che è «contaminato», «impuro» e «sporco». Gesù ha rotto con tutto ciò! È diventato amico dei peccatori e dei perduti, ha vissuto con loro e con loro ha condiviso tutto. Per questo ha tanto scandalizzato gli osservanti, ma anche per questo ha aperto orizzonti così grandi di speranza e di bontà.

  “Forte come la morte è l’amore!” (Ct 8,6). Con questa celebre immagine viene descritta, nel Cantico dei Cantici, la forza irresistibile dell’amore. Corre sempre un grosso rischio chi si lascia coinvolgere in un legame affettivo: l’amore presuppone la libertà e comporta la possibilità del rifiuto e dell’insuccesso. Fanno parte del gioco anche la gelosia, i tormenti, le ansie, la paura dell’abbandono e tutte quelle emozioni che siamo soliti chiamare sofferenze d’amore. “Sono malata d’amore!” – ripete la sposa del Cantico dei Cantici (Ct 2,5; 5,8).

  Dio ha voluto correre questo rischio: ha accettato di farsi debole e ha messo in conto anche l’eventualità della sconfitta. Lo abbiamo sempre immaginato onnipotente, ma in amore l’onnipotenza diventa impotenza! Dio, quando ha creato l’uomo libero, ha come ristretto il suo potere. È ciò che i rabbini chiamano contrazione, svuotamento, kènosis (tzim-tzum). Dio non può costringere, deve conquistare la persona amata. Se minacciasse castighi avrebbe perso la partita, non creerebbe amore, ma ipocrisia. In Gesù, Dio ha fatto più volte l’esperienza del fallimento. Gerusalemme non ha corrisposto al suo amore: “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto” (Lc 13, 34); a Nazaret non poté operare nessun prodigio (Mc 6,5-6), il giovane ricco gli oppose un rifiuto (Mt 19,16-22). La gioia più grande dell’innamorato è la riconquista dell’amata, è sentirla ripetere: “Ritornerò al mio marito di prima, perché allora sì che ero felice, non ora!” (Os 2,9). BUONA VITA!