La Domenica di Don Galeone: “…la lezione è chiarissima: il nostro prossimo è chiunque si trova nella necessità”

10 Luglio 2022 - 15:45

10 luglio 2022 ✤ XV Domenica tempo ordinario (C)

Chi ama i fratelli, manifesta Dio

Prima lettura   Questa parola è molto vicina a te, perché tu la metta in pratica (Dt 30,10)   Seconda lettura   Per mezzo di Cristo e in vista di lui tutte le cose sono state create (Col 1,15) Terza lettura   Chi è il mio prossimo? (Lc 10,25)

La domenica del “buon samaritano”  Nel Vangelo di oggi troviamo un insegnamento centrale in tutta la predicazione di Gesù. Attraverso questa parabola, Gesù ci fa capire chi è il prossimo; la lezione è chiarissima: il nostro prossimo è chiunque si trova nella necessità. Farsi prossimo dell’altro significa farsi carico della sua situazione, partecipare alle sue gioie e dolori. Tutto questo ci costerà tempo, denaro, sacrificio. Questo episodio del Vangelo si trasforma per tutti in un forte esame di coscienza. A volte sosteniamo che l’amore è impossibile, la generosità è utopia, fermarsi per aiutare è un rischio … Questa pagina di Luca ci insegna che non sempre l’uomo è un lupo per l’altro uomo! Proviamo difficoltà a commentare questo Vangelo di grande bellezza e profonda spiritualità. Cercheremo solo di sottolineare, come fanno gli allievi con l’evidenziatore, qualche espressione del Vangelo, la cui lezione è contenuta nelle ultime parole di Gesù, rivolte a ognuno di noi: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso!”.

Il Vangelo inizia presentandoci non un samaritano, ma un giudeo, non un peccatore, ma un giusto, un dottore della legge che chiede a Gesù cosa deve fare per ereditare la vita eterna. Adeguandosi alla prassi delle dispute rabbiniche, Gesù non risponde subito, ma rivolge una controdomanda: che cosa c’è scritto nella Legge? Con prontezza, il rabbino si appella a due testi biblici. Il primo è molto conosciuto perché ogni pio israelita lo recita nelle preghiere del mattino e della sera: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza» (Dt 6,5); il secondo, sul quale si insisteva un po’ meno, è preso dal libro del Levitico: «e il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). Sottolineiamo qualche espressione:

Il dottore della legge presenta una domanda teorica; egli pretende un elenco preciso delle persone da amare, una lista dei poveri, l’indirizzo sicuro degli emarginati. Gesù non si lascia invischiare nel dibattito accademico. Non presenta una tesi, ma un fatto. E costringe l’interlocutore a scegliere non una teoria, una teologia, ma un atteggiamento virtuoso, un comportamento etico. Nella nuova religione è più importante il ‘fare’ che il ‘sapere’. È sconfitta ogni forma di intellettualismo etico. Il problema fondamentale del cristiano non è quello di sapere chi è il suo prossimo, ma di farsi prossimo.

Chi è il mio prossimo? Si discuteva fra i rabbini su chi dovesse essere considerato prossimo. Alcuni dicevano che si dovevano amare solo i figli di Abramo, altri estendevano questo amore anche agli stranieri, che dimoravano da molto tempo nella terra d’Israele. Tutti, comunque, concordavano nel dire che i popoli distanti e i nemici non erano prossimo. I monaci di Qumran si attenevano a questo principio: «ama i figli della luce e odia i figli delle tenebre» e i «figli della luce» erano i membri della loro comunità.

Per caso un sacerdote… un levìta. Bello quel per caso! Non dobbiamo andare a cercare il fratello bisognoso: sono le circostanze e le coincidenze che ce lo fanno incontrare. Come si comportano gli uomini di chiesa? I leviti erano i servitori e le guardie del Tempio. Siamo di fronte a due giudei, gente per bene, gente che pregava e che aveva le idee chiare su Dio e sulla religione. Perché Gesù introduce nella sua storia questi due «uomini di chiesa»? Avrebbe potuto evitare le polemiche e presentare subito l’esempio positivo. Perché provoca i «notabili», i «membri della gerarchia»? Gesù ha un po’ la «cattiva abitudine» di prendersela con le persone «religiose» (cf. Lc 7,44; 11,37; 17,18; 18,9; ecc.) e la ragione è sempre la stessa: Dio non gradisce l’incenso, i canti, le interminabili preghiere con cui si tenta di sostituire l’impegno concreto in favore dell’orfano, della vedova, dell’oppresso (Is 1,11). Gesù cita più volte la frase del profeta Osea: «Opere di misericordia io voglio, non sacrifici!» (Mt 9,13; 12,7). Costoro vengono da Gerusalemme, dove hanno certo partecipato a solenni liturgie. Hanno trascorso una settimana – questa era la durata del loro servizio – con il Signore. I due «uomini di chiesa» vengono dal tempio, eppure sono insensibili, non provano compassione – il primo dei sentimenti di Dio (Es 34,6). Questo significa che la religione che praticano è ipocrita e ha indurito il loro cuore invece di intenerirlo.

Un samaritano. A questo punto gli ascoltatori si aspettano che, dopo i due «uomini di chiesa», entri in scena il soccorritore che sarà – ne sono certi – un laico giudeo. Se Gesù avesse portato avanti la parabola in questi termini, la gente – che già allora manifestava quel benevolo anticlericalismo che anima un po’ anche i cristiani di oggi – lo avrebbe applaudito. Invece ecco la sorpresa, la provocazione: compare un samaritano. Si badi bene: il Vangelo non dice un «buon samaritano» ma un samaritano e basta.

Chi di questi tre… Gesù non pronuncia il suo giudizio sull’accaduto; vuole che sia il dottore della legge a farlo. Per questo pone una domanda che capovolge quella che gli è stata rivolta all’inizio. «Chi è il mio prossimo?». II dottore della legge risponde: «Chi ha avuto compassione di lui». Evita – per ovvie ragioni – di pronunciare il nome «samaritano», ma è costretto ad ammettere che è lui il modello di chi sa farsi prossimo.

Un dottore della legge… un sacerdote… un levita… un samaritano. Colpisce la ripetizione del pronome indefinito ‘uno’. Cioè: siamo tutti coinvolti! Non c’è tempo per domandarsi: dove sono politici, persone di chiesa, magistrati, forze dell’ordine? Perché Dio non interviene? Dio interviene sempre, ma lo fa attraverso ognuno di noi, perché Dio non ha mani, ha solo le nostre mani per continuare a salvare e guarire anche oggi (M. Pomilio, Il quinto evangelio).

Scendeva da Gerusalemme … Scendere (עלה) e salire (ירד) sono due verbi tecnici: non “si va” ma “si sale” o “si scende” da Gerusalemme. Da Gerusalemme a Gerico c’è un dislivello di 800 metri sul livello del mare, un percorso pericoloso. Gerusalemme: è la città santa per eccellenza; Gerico, invece, è la città sacerdotale per eccellenza, perché destinata alla tribù di Levi. Queste due città distano fra loro 27 km. La strada è in forte discesa, attraversa il deserto di Giuda lungo l’wadi Queir, continua in mezzo a dirupi, grotte e precipizi fino alla steppa di Gerico, l’incantevole «città delle palme» dove Erode, le famiglie benestanti della capitale e molti sacerdoti del tempio avevano le loro ville e le residenze invernali. Si era soliti percorrere questa strada in carovana per evitare di essere assaltati da ladri e banditi. Uno scenario pauroso, ambiente ideale per attentati: è la “strada del sangue”. Ma le strade sono pericolose non per la presenza di malfattori ma per l’assenza di benefattori. Non sono i briganti a rendere pericolosa la strada ma l’indifferenza dei buoni.

È importante l’indicazione che stavano scendendo. I sacerdoti e i leviti salivano a Gerusalemme una settimana per offrire il loro servizio; quindi, sacerdote e levita non stanno salendo a Gerusalemme ma scendevano dopo avere servito nel tempio; si allontanavano dalla città di Dio, dal tempio, dalla preghiera (cfr. Emmaus 24,13: ἀπὸ Ἰερουσαλήμ… Figliol prodigo 15,13: εἰς χώραν μακράν). Osservazione importante: salire o scendere hanno un valore non solo fisico ma spirituale; salire sul monte è avvicinarsi a Dio; scendere dal monte è vivere nel peccato. Il sacerdote e il levìta sono stati a contatto con Dio per una settimana intera. Ma Dio li aspettava sulla strada degli uomini. Davanti a Dio ha ragione solo chi sa fermarsi, chi sa donare tempo per l’altro, chi è capace di arrivare tardi a una funzione o a un appuntamento. Il samaritano sta compiendo il viaggio contrario: sta salendo dal peccato alla grazia, dalla città degli infedeli alla santa Gerusalemme! Lui, il samaritano, il rinnegato, lo scomunicato, ha saputo trovare immediatamente il gesto esatto.

Notare l’accumulo dei verbi e l’affettuosa attenzione con cui si prende cura di un uomo che neppure conosce. Luca mette in fila dieci verbi per descrivere l’amore. Ecco il nuovo decalogo della bontà: 1. Lo vide. 2. ne ebbe compassione. 3. gli andò vicino. 4. versò olio e vino. 5. lo fasciò. 6. lo caricò sul suo asino. 7. lo portò in una locanda. 8. tirò fuori due monete d’argento. 9. le diede al padrone. 10. se spenderai di più, ti pagherò quando ritorno. Questo è il nuovo decalogo, i nuovi dieci comandamenti per tutti, perché la terra sia abitata da prossimi e non da avversari. Gesù insegna che ci sono due modelli di etica: l’etica dell’osservanza religiosa (quella del sacerdote e del levita); l’etica della prossimità umana (quella del samaritano).

La parabola, quindi, non si limita a un teorico Vogliamoci bene! Possiamo provocare indicibili sofferenze al prossimo, e sentirci tranquilli davanti a Dio. In questo consiste il pericolo più grande per le religioni e per le persone religiose. Cristo non si occupa di ortodossia, cioè di verità da contemplare, ma di ortoprassia, cioè di verità da fare. Parole contraddittorie, per noi male-educati all’intellettualismo etico. Non è forse vero che la verità si pensa e riguarda la sfera dianoetica? Per Gesù, invece, si conosce la verità facendo la verità. Quello che Gesù sta mettendo in questione è una faccenda molto seria: quando c’è conflitto tra il culto divino e il bene dell’uomo, cosa si fa? Il sacerdote non ha dubbi: viene prima il culto divino e poi il bene dell’uomo. Per Gesù, invece, è vero il contrario! BUONA VITA!