LA NOTA. Ma che c’azzecca Antonello Velardi, il suo autoritarismo da latifondista messicano, con il professore Angelo Panebianco, liberale e tollerante e mai giostraiofobico?

21 Ottobre 2020 - 17:48

In calce alla nostra riflessione pubblichiamo il post del sindaco di Marcianise contenente lo stralcio del fondo del Corriere della Sera, utilizzato per attaccare Dario Abbate, che sarebbe un frustrato in privato e un violento in pubblico

MARCIANISE – Eravamo pronti a riconoscere a Velardi un’evoluzione interessante in termini di autocoscienza anzi, a pensarci bene, un innesco, un esordio della stessa nell’arco temporale della sua esistenza. Avendo citato, infatti, un fondo, pubblicato dal Corriere della Sera, di uno dei suoi più antichi editorialisti, il professor Angelo Panebianco, avevamo ritenuto che questa decisione, questa sanissima lettura, desse la stura ad un percorso nel riconoscere se stesso.

O meglio ancora, per la precisione, riconoscere se stesso dopo un lungo cammino esistenziale, durante il quale a contare sono stati solamente gli obiettivi materiali, le conquiste professionali da ghermire ad ogni costo con gli strumenti tipici delle prassi italiote, le quali con tutto hanno a che fare tranne che con la conoscenza.

Cavolo, abbiamo pensato, Angelo Panebianco è un liberale galantuomo, prima di tutto galantuomo e poi liberale, dato che è anche esente da certi difettucci mai estinti di questa grande dottrina politica, com’è senza ombra di dubbio la massoneria. Lo è perché difende da decenni i valori immarcescibili, sempre freschi e nitidi di un liberalismo umano e umanista, basato sugli equilibri che solo il rispetto laico per il prossimo

tuo possono garantire, riducendo al minimo le disparità e la cifra di dignità che ogni uomo e ogni donna meritano di costruire nel corso della propria vita.

Il fondo di Panebianco pubblicato da Velardi rappresenta, infatti, una struttura logica che affonda le sue radici nel pensiero filosofico del liberalismo. Infatti, quando Panebianco scrive che la politica è diventata il luogo dove si annidano e dove molto spesso esplodono le peggiori perversioni umane, lo dice e lo scrive parlando e scrivendo da liberale. L’uomo o la donna frustrati da un privato che non li gratifica e che trovano nella politica la possibilità di sfogare queste frustrazioni, non sono il fine e la fine del ragionamento di Panebianco, ma rappresentano uno strumento di analisi che conduce ad una valutazione che rappresenta l’autentico marchio di fabbrica del liberalismo. Esistono, cioè, tanti tipi di prevaricazione, di violenza. Uno di questi si fa schermo delle guarentigie che l’esercizio in politica assicura, per poter infliggere violenza nei confronti del prossimo. Panebianco confina la sua analisi al mero dato lessicale, alla constatazione amara dello sdoganamento di cui la parola, il termine Odio sta godendo.

Ma l’angolo visuale, ripetiamo, è quello di un liberale, il quale contrappone il dialogo, il confronto, come del resto l’intera cultura liberale ha sempre fatto nei secoli, soprattutto nei suoi livelli filosofici e dottrinali, molto spesso lontani da quelli della ragion politica di un Cavour o di un Giolitti, che pure liberali si professavano, alla cultura dell’odio, quale elemento leggittimatore della violenza e dell’induzione alla violenza e dell’autoritarismo che il più delle volte di queste rappresentano la conseguenza. Ed è la fede laica nel confronto che diventa valore in sé, finanche al di sopra delle idee individualmente concepite – mi permetto di estendere il pensiero di Panebianco, avendo letto molto attentamente i suoi libri – diventa conseguentemente strumento di inclusione liberale. Non è questione di decibel, ma di contenuti. Se tu, infatti, possiedi dei contenuti da contrapporre o giustapporre ad altri contenuti, non avrai bisogno di odiare. Se odi è perché il vuoto pneumatico che hai nella testa viene colmato dai cascami della tua frustrazione privata. Più liberale di così!

Ecco perché ritenevamo che finalmente, con la citazione di questo fondo, che ricalca in pieno tutto ciò che Panebianco ha testimoniato nella sua lunga vita accademica, Velardi promuovesse un momento di riflessione, con la speranza che questa potesse poi trasformarsi, evolvendosi e non involvendosi, nel di rito liberatorio e per l’appunto liberale dell’autocritica. Il tutto sublimato in equo e ovviamente liberalissimo riconoscimento delle ragioni altrui. Soprattutto di quelle, e qui “zompiamo” a Voltaire, che discordano anche profondamente dalle nostre. Pensavamo che Velardi si preparasse a relegare in soffitta, in quelle che Gino Paoli chiamava “l’ufficio delle cose perdute” (per lui era nostalgia, per noi rottamazione), le valutazioni apodittiche; le sentenze sputate a ripetizione su ogni tipo di argomento; l’insulto gratuito e banalizzato dall’assenza di una seppur minima argomentazione indirizzato a chi non la pensa come lui. Un illiberale doc come Velardi che comincia un cammino di conversione, che magari si pente di certi comportamenti. In questo avevamo sperato.

Giusto per fare un esempio, ma che cavolo c’entra con la cultura del professore Panebianco domandare ad una ragazza che chiede ragioni di un’area riservata al notabilato marcianisano prima del concerto della Festa del Crocifisso, “ma tu di chi sei figlia“? Che cavolo c’entra con la cultura del professore Panebianco un’espressione tanto rozza, frutto di un autoritarismo collegabile a quello di un mezzo signorotto del contado toscano o a quello di un latifondista messicano?

L’autoritarismo è arroganza, protervia, presunzione, cioè l’antitesi precisa di ciò per cui hanno vissuto e vivono il professore Panebianco e tutti i grandi intellettuali di scuola liberale. Quando la speranza sosteneva il nostro umore, ci siamo imbattuti nella premessa. Secondo Antonello Velardi, invece, è, al contrario, Dario Abbate il frustrato nella vita privata che usa la violenza con il linguaggio della politica. Ciò perché ha detto che la giunta varata da Velardi non è all’altezza ed è colma solo di incompetenti. Frasi forti, sicuramente, ma comunque non eccedenti il confine della dialettica politica. Per cui, nulla c’azzeccano con ciò che Panebianco ha scritto e che, invece, è molto più calzante alla narrazione dei giostrai, alla lesa maestà e a tante altre nefandezze di cui Velardi si è macchiato. Un liberale avrebbe risposto a Dario Abbate rispendendo al mittente il suo attacco.

Consigliere Abbate, avrebbe detto, l’incompetente è lei e non i miei assessori e ora, promettendole che poi alla fine di questo ragionamento le dirò che lei è un cretino, pur essendo convertito al liberalismo poiché sono fumantino e mi devo sfogare, le spiego con la forza delle argomentazioni politiche e logiche perché l’incompetente è lei e non i miei assessori.

Questo sarebbe un politico a cui Panebianco plaudirebbe.