CLAN DEI CASALESI, era riorganizzazione vera. Come Enrico Verso si muoveva a Lusciano, Parete, Castel Volturno, Villa Literno e San Marcellino

23 Luglio 2019 - 11:53

PARETE – Il contributo di alcuni collaboratori di giustizia, precisamente Salvatore Laiso, Massimo Amatrudi, Giosuè Palmiero e Giovanni Mola è utile ma, diciamo così, asciutto, fondato sul riconoscimento del fatto che Enrico Verso ha svolto attività criminale utilizzando la parentela con Raffaele Bidognetti, figlio di Francesco.

Al contrario, ma meglio sarebbe dire a integrazione, Salvatore Orabona, oltre a esporre un racconto dei fatti incastrato temporalmente in un periodo molto più recente, che va dagli ultimi mesi del 2016 ai primi del 2017, allarga il ragionamento che contiene le cose che sa su fatti specifici, ma anche il nuovo contesto nel quale il clan dei casalesi, pur decimato da tantissimi arresti, non alza bandiera bianca.

Lo dice con chiarezza Orabona in un interrogatorio del novembre 2016: “(…) È sbagliato dire che il clan dei casalesi è finito. Vi è infatti un nuovo gruppo di soggetti, molti dei quali giovani e legati da un rapporto di parentela (figli) ai vecchi esponenti del clan”.
Interessante questa affermazione.
I nuovi boss, tra cui Enrico Verso, non posseggono certo il carisma criminale dei vecchi, dunque non sono in grado di attrarre nuovi affiliati, attingendoli da una manovalanza criminale dotata di una carta d’identità verdissima.
Detto questo, però, il ricambio generazionale è di natura dinastica.
Figli e nipoti di vecchi boss che provano a rinverdire e a conservare la forza di intimidazione che solo l’appartenenza coperta dal brand del clan dei casalesi può ancora garantire.
Questo dice Salvatore Orabona a fine 2016.
Poi succedono fatti, come quello relativo all’arresto di Diana, figlio del boss Elio Diana, nell’ambito della operazione sui traffici di stupefacenti dalla piazza di spaccio di Vitulazio fino a Casal di Principe, e ti accorgi che il ragionamento fatto da Orabona due anni e mezzo fa non è affatto campato in aria.

Insomma, Enrico Verso non è un cane sciolto, non è uno che punta a conservare un orticello criminale.
Le poche truppe rimaste a piede libero hanno la necessità di riorganizzarsi, dunque non è più un tabù l’idea di una fusione piena tra gli affiliati al gruppo della famiglia Schiavone e quelli della famiglia Bidognetti. Formalmente si tratta di un’annessione, visto che Enrico Verso, Claudio Virgilio e Vincenzo Cirillo aderiscono al cartello degli Schiavone. In realtà non è proprio così, dato che il cognato di Bidognetti entra portando in dote le storiche roccaforti dei Bidognetti.

Diventa un clan unico, secondo Salvatore Orabona, con i bidognettiani in grado di recar con sè la dote di un controllo storico di alcuni territori, feudo incontrastato di Bidognetti sin dalla fine degli anni ’80: Parete, Lusciano (confermando la forte relazione con la famiglia Di Cicco), Castel Volturno, Villa Literno che, va precisato, i Bidognetti “conquistano” ad epilogo di una cruenta guerra che semina morti con numeri somiglianti a quelli registrati ai tempi della peste dai monatti che scaricavano i cadaveri dai carretti, con i gruppo locale della famiglia Tavoletta.
Questi riferimenti storici non sono fini a se stessi, ma diventano utili per capire che Enrico Verso è l’erede di rendite criminali costruite attraverso gli avvenimenti più cruenti e più importanti della storia del clan dei casalesi.
Non sarà mai “il capo dei capi”, Enrico Verso, ma è in grado, sempre secondo Salvatore Orabona, di capire che in linea con la nuova idea strutturale basata sull’unione che fa la forza, occorre che il clan di casalesi si apra ad alleanze più strette rispetto a quelle del passato.
Enrico Verso, d’altronde, non è un casalese di nascita e di censo, ma è un assimilato.
Arriva a Parete da Villaricca, seguendo la traccia sentimentale di sua sorella Orietta, moglie di Raffaele Bidognetti.
Conosce, dunque, la camorra di Napoli Nord, meno intaccata dall’attività delle forze di polizia e della magistratura.

Insomma, non proprio, per usare un’espressione dialettale molto consueta, un “pescetiello di cannuccia”, come qualcuno negli ultimi anni ha voluto far capire con schemi di ragionamento totalmente smentiti dalle lucide ed articolate ricostruzioni, ripetiamo significativamente recenti, del collaboratore di giustizia Salvatore Orabona.