CORONAVIRUS/seconda parte. LA TESTIMONIANZA del dottor Alberto Mingione: “La figura del medico deve recuperare il rispetto perduto”

19 Aprile 2020 - 13:10

Caserta (pasman)/seconda parte – Come abbiamo detto nella prima parte di questo commento attorno alla pandemia che percorre il Paese, più il tempo passa più emergono le carenze ed i limiti delle nostre infrastrutture sanitarie e civili. Con una puntualizzazione, tuttavia. Quella che, mentre il personale medico sta dando prove impareggiabili di competenza e di abnegazione spinta fino all’estremo sacrificio, il governo della sanità pubblica affidata alla casta dei suoi supposti alti amministratori – in cui da sempre si annidano incapaci e panurghi – è nel marasma più totale. Perfetto riflesso di una classe politica completamente smarrita. La quale, ancora oggi, è concentrata ad affrettare propandisticamente la data da cui avviare la cosiddetta fase 2 di ritorno alla normalità della vita nazionale, piuttosto che sulle modalità per realizzarla in un quadro di sicurezza sanitaria, di cui gli esperti indipendenti dubitano non poco con riguardo all’annunciato prossimo 4 maggio. Siamo al punto che, pur a tante settimane dalla comparsa del contagio, in molte realtà ospedaliere scarseggiano tuttora le dotazioni dei materiali medicali indispensabili, manchi una seria pianificazione degli interventi profilattici, perdurino le gravi carenze delle reti di assistenza medica del territorio, che sole potrebbero assicurare cure tempestive  ed impedire l’ospedalizzazione spinta, rivelatasi un notevole fattore di errore . L’ imprevidenza e la rigidità organizzativa più sorprendenti che si stanno evidenziando nel nostro sistema  sanitario sono tali che non consentono di uscire dallo stallo. Ed avendo già prodotto effetti aberranti, con casi di pazienti deceduti in casa, dove gli era stato prescritto di stare, dopo aver atteso per settimane una visita medica che non è mai arrivata.

Se si pensa che la competenza conti ancora qualcosa, il professore Sabino Cassese, presidente emerito della Corte Costituzionale e massimo esperto della pubblica amministrazione italiana, denuncia da sempre i mali della burocrazia, i quali sono causa anche del dramma di oggi, restando tuttavia inascoltato. Ricordiamo una sua ultima analisi in proposito: “ Il personale burocratico … è scelto male (quando è scelto: sarà il caso di ricordare come vengono nominati i direttori delle aziende sanitarie e gli stessi primari ospedalieri. Sono pochi i burocrati selezionati con procedure concorsuali aperte a tutti e basate sul merito…. Troppa è la fame di posti delle forze politiche, desiderose di premiare i propri fedeli o di conquistarne di nuovi mediante lo spoils system all’italiana”.  Più chiaro di così ! Solo chi non vuole intendere non intende.

Dicevamo, nella prima parte, che è forte la sensazione che siamo giunti ad una sorta di redde rationen, dopo questa ecatombe nazionale, che qualcuno ha definito una Caporetto, per alludere alla disfatta ma anche al numero delle vittime. Ed anzi, in quella battaglia ferale, ci dicono gli storici che vi furono non meno di 12mila morti, quando, ad oggi, in Italia, la pandemia ne ha già mietuti oltre 22mila.

Ora, da dove deriva la sensazione, a cui abbiamo accennato, che il limite della sopportazione sia oramai raggiunto ? Da una serie di evidenze, di segnali, tra i quali certamente vi è l’emblematica lettera che riportiamo. Si tratta di una riflessione di un medico dell’ospedale provinciale di Potenza, che l’ha pubblicata sul suo profilo Facebook nel pieno dell’epidemia, quando i medici e gli infermieri deceduti nel Paese già si contavano a decine. Non ha solo i caratteri dello scritto accorato, e neppure è un’invettiva, ma è una rivendicazione di orgoglio della professione sanitaria, che rifiuta la facile retorica, non quella autentica delle persone comuni che guardano ammirate al tributo di vite che medici ed infermieri stanno pagando in questo frangente estremo, ma quella di chi ricopre incarichi pubblici e la utilizza perché deresponsabilizzante.

La lettera, dopo la sua pubblicazione, ha avuto consensi immediati ed è diventata “virale” (così almeno si dice, in linguaggio social, ma forse converrebbe coniare un termine nuovo, considerato ciò che oggi esso evoca) e ben oltre la cerchia di persone della categoria. Segno della larga adesione alle considerazioni ed alle opinioni che essa esprime.

Prima di proporne il testo, qualche nota sul suo autore. Si tratta del dottor Alberto Mingione, medico 40enne originario di Santa Maria Capua Vetere, che, “figlio d’arte” perché di padre chirurgo e madre anestesista, dopo la laurea conseguita a Roma e la specializzazione ottenuta all’università di Napoli Federico II ed un iniziale periodo di precariato presso strutture sanitarie del casertano, due anni fa vinceva il concorso di chirurgo generale presso l’ospedale “San Carlo” di Potenza. E qui vive con la famiglia, anche se confessa torna spesso e volentieri nella sua città natale.

Quando lo abbiamo sentito allorché abbiamo saputo della sua coraggiosa iniziativa, ci ha dichiarato: “ La pandemia è stata uno “sganassone”, improvviso e ben assestato, della Natura al Mondo globalizzato: nessun sistema sanitario al mondo era pronto a fronteggiarla. Ciò detto, è indubbio che in Italia ci sia stato un trentennale deterioramento del sistema sanitario pubblico con incredibile penalizzazione dei servizi: chiusura di ospedali, riduzione di posti letto, blocco delle assunzioni, sponsorizzazione ed impennata del contenzioso medico-legale, scarsa valorizzazione delle singole professionalità. Ma pochi comprendono un aspetto essenziale: chi paga le conseguenze di tutto ciò, prima del paziente, è il medico. Forse oggi la pandemia su questo aspetto ha acceso i riflettori. – Un evento di portata epocale impone un ripensamento totale della nostra cultura, della società civile e delle sue priorità. In questo contesto sarebbe bene che la figura del medico recuperasse – sui mezzi di informazione, nelle aule giudiziarie ed anche nella testa dei pazienti – una considerazione e un rispetto ormai da tempo perduti. Poi le questioni pratiche sono tante: soldi spesi di più e meglio nel Sistema Sanitario, lotta all’ingerenza della Politica in Sanità, ridimensionamento del Regionalismo sanitario… Ma io, per rimanere nel tema della mia lettera, non sono un “eroe”… non mi sento in grado di dare soluzioni a questioni epocali. Io sono solo un lavoratore silenzioso, come tanti… che a tanti colleghi come lui ha avuto l’occasione di dare una voce”.

Come non essere d’accordo davanti ad una verità così disarmante!

 

QUESTA LA LETTERA

«Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché chi ti chiama eroe in tempo di guerra è lo stesso che in tempo di pace ha svilito, mortificato, dissacrato la professione medica. Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché chi lo fa ha la passione per gli “slogan”… isterici e riduttivi. E la “malasanità” è uno slogan, uno dei meglio riusciti. Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché non si trasforma una categoria di professionisti, con i loro diritti e i loro doveri, con le loro famiglie, con esigenze sovrapponibili a quelle di ogni altro lavoratore, in un improbabile esercito di martiri o missionari.

Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché ti stanno usando. Senza contegno e senza pudore. Lo fanno per stendere un’elegante, efficace cortina sulle loro enormi responsabilità: quella di averti tolto i mezzi per lavorare ieri, e quella di mandarti oggi in guerra senza le armi. Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché dalla glorificazione mediatica all’accusa di codardia il passo è brevissimo. E quando, per investitura universale, diventi un eroe, non puoi più lagnarti se ti manca la mascherina. Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché ti stanno usando anche certi tuoi colleghi… gli “esperti”.

Loro non hanno il tempo di stare in corsia come te: sono sempre in Tv, sui giornali, sui social, a dire tutto e il contrario di tutto, pur di promuovere la loro immagine, il loro nome o l’ultimo libro pubblicato in tempi record sull’argomento. Lo fanno a nome della categoria, autoproclamandosi rappresentazione mediatica di quell’eroismo che, seppure esistesse, non li riguarderebbe. Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché vivi in un paese che si nutre di sensazionalismo, e, nell’emergenza, arriva puntualmente a considerare l’eroismo obbligatorio. E poi ti impone la scelta: martirio sul campo o gogna mediatico-giudiziaria.

Non farlo. Non cadere nel tranello. Non è obbligatorio essere eroi. E non è neppure necessario. Basterebbe che ognuno – medico, paziente, politico, giornalista, giudice, avvocato – consapevole di essere un uomo (fatto di competenze, ma anche di debolezze, di paure, di limiti e di sacrifici), tentasse di fare il proprio dovere e non si sottraesse al proprio destino e alle proprie responsabilità. E’ esattamente quello che noi MEDICI facciamo tutti i giorni, silenziosamente, da molto prima della pandemia. Da sempre. La pandemia, per noi, è soltanto l’occasione di insegnarlo a tutti gli altri. Non perdiamola».