Giacomo Capoluongo ai domiciliari causa covid, ma la Cassazione aveva confermato il carcere

2 Giugno 2020 - 12:00

Una sentenza emessa il 3 marzo e divenuta pubblica in questi giorni che confermava, quindi, il carcere per Capoluongo che poi ha potuto tornare a casa grazie alle norme legate all’epidemia da coronavirus

SAN CIPRIANO D’AVERSA – Ben prima di usufruire degli arresti domiciliari, misura meno afflittiva ricevuta dall’imprenditore nel mese scorso, collegata all’epidemia di coronavirus, Giacomo Capoluongo era stato raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, partita dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli, poiché accusato di associazione di tipo mafioso, cioè per il suo rapporto con il clan dei Casalesi, dal giugno 2005 all’Aprile 2017. Ordinanza di custodia in carcere confermata dal tribunale per il Riesame di Napoli nel novembre 2019.

Capoluongo, attraverso i suoi legali aveva proposto ricorso in Cassazione, per richiedere l’annullamento di quest’ultima decisione della corte napoletana.

Secondo la tesi dei legali del 63enne di San Cipriano d’Aversa, dalle parole di Nicola Schiavone, emergeva il fatto che Capoluongo era un intermediario per alcuni affari imprenditoriali non illeciti. In pratica, il rapporto con il figlio di Francesco Schiavone Sandokan, non riguardava il gruppo criminale ma era più che altro personale. Sottolineano i legali dell’uomo, che in un precedente provvedimento nei confronti di appartenenti al gruppo criminale, successivi alla collaborazione di Nicola Schiavone, non

c’era stata nessuna menzione riguardante il loro assistito.

Ma i giudici della corte di Cassazione hanno ritenuto inammissibile il ricorso, confermando quello ordinanza di custodia in carcere, poi mutata in arresti domiciliari.

Scrivono i giudici, che le dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia Orabona e Schiavone, che rappresentano l’architrave dell’accusa, sono dettagliate e provengono da soggetti che hanno rivestito ruoli di rilievo all’interno del clan e per questo si desume una loro approfondita conoscenza delle vicende criminali. Viene specificato, inoltre, che c’è poca rilevanza a riguardo di una mancata rituale affiliazione di Capoluongo, perché emerge comunque una costante e qualificata collaborazione tra il 63enne e i vertici dell’organizzazione criminale. Oltre al rapporto con Nicola Schiavone, nella sentenza viene fatta menzione della connessione con Michele Zagaria. Capoluongo, infatti, avrebbe garantito la lunga latitanza del capoclan, mettendogli a disposizione anche la propria casa per riunioni segrete (come raccontato dal pentito Massimiliano Caterino O’ 

Mastrone) e che le successive ragioni del dissidio con il boss sarebbero legate all’impegno, non mantenuto da quest’ultimo, di aprire una farmacia per la moglie di Capoluongo.

Infine, secondo i giudici dell’ultima istanza, anche la valutazione compiuta dal tribunale di Napoli delle conversazioni intercettate è ritenuta corretta. L’esempio che viene riportato nella sentenza riguarda il dialogo tra un titolare di un’azienda agricola che, alla rivendicazione di un proprio credito compiute da Capoluongo verso di lui, replicava che questi era “il padrone“.

Una sentenza emessa il 3 marzo e divenuta pubblica in questi giorni che confermava, quindi, il carcere per Capoluongo. Una situazione che solo le discutibili misure del Dap e le scarcerazioni figlie dell’epidemia da coronavirus hanno modificato. E’ chiaro come questa scia di polemiche nate attorno alla decisione di trasferire agli arresti domiciliari centinaia di persone accusate o condannate per mafia pare lontana da vedere la sua fine.

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